Guzzi Gabriele
Il capodoglio
Prima di dire una parola
Ho bisogno di molto scavare,
Di molto cavare
Da me, tutto il mio odio.
Non amo stare in superficie.
Il pesce sul pelo dell’acqua
Muore, ogni mattina.
Io sono il grasso capodoglio.
Voglio gli abissi
E niente altro. Starmene per ore
Giù, col peso dei quintali sotto i maestrali
A godermi la mareggiata.
Io voglio la bracciata sotterranea,
La cantata delle alte maree.
Voglio sprofondare
Nel canto dove il caldo
Ventre del mare abbraccia suo figlio
Prediletto, l’eletto
Re. L’inabissato.
L’ambiguità della soglia
Brillano i ricordi lasciati ad essiccare
Sopra il davanzale. La memoria
Scalda il flusso di questo settembre
Mentre i nostri corpi risuonano
Sporgenti alla deriva, s’espongono
Nell’insicurezza dei balconi
Nella sottile ambiguità della soglia.
“Il rischio che a lungo fuggimmo
Oggi è la voce che ci chiama.
Il pericolo cristallino del risveglio
Oggi s’espande, verso di noi,
Come una donna piangente nel travaglio,
Come una scure abbandonata nel perdono.”
La voce fredda dei passanti s’indebolisce
E il torpore dei salotti è più innocuo.
La luce si fa più quieta,
Silente riposa nell’increspatura rosa
Che s’interseca tra i ciclamini.
Qui,
Il mio compagno sei tu:
Questo eterno silenzio
Ventoso, questo presente vivo
E senza luogo, che si rinsalda
Battendo il busto sulla bocca della bolgia
E ci sei tu, e basta, ultimo bastione
Sul confine, ultimo passaggio, ultimo
Viaggio terminato nel principio.
“Non ho avuto che fortuna”, mi dici.
“Non ho avuto che un cuore pronto a morire.”
E poi questa gioia interminabile,
L’espansione infinita della terra,
Questa felicità improvvisa che non ha motivo,
Questo vasto senso di vittoria.
E gli spigoli ardenti dei vasi
Dove l’acqua scivola e la vita sovrabbonda
E noi che partecipiamo,
Senza più un tratto di memoria,
All’anima larga della visione.